Marco Bagnoli, Araba Fenice (modello), 2013

Araba Fenice,

veduta parziale della mostra.

In primo piano:
Araba Fenice (modello), 2011 – 2013,
legno trattato,
cm 150 x 90 x 35.

Limonaia Grande, Giardino di Boboli, Firenze 2013.

“[…] Immagini di ombre e di luce si sdoppieranno e ripeteranno, in un gioco ipnotico di fissità e movimento, al centro del quale apparirà l’Araba Fenice, la sagoma di una mitica figura che viene costruita nel vuoto generato dall’assemblarsi di ben tre sculture. Figura del nascere e rinascere, dell’apparenza effimera e della forma eterna, l’Araba Fenice risulta citata per la prima volta da Erodoto che nelle sue celebri Storie la descrive in questi termini: ‘un altro uccello sacro era la Fenice. Non l’ho ma vista coi miei occhi, se non in un dipinto, poiché è molto rara e visita questo paese (così dicono ad Heliopolis) soltanto a intervalli di 500 anni: accompagnata da un volo di tortore, giunge dall’Arabia in occasione della morte del suo genitore, portando con sé i resti del corpo del padre imbalsamati in un uovo di mirra, per depositarlo sull’altare del dio del Sole e bruciarli. Parte del suo piumaggio è color oro brillante, e parte rosso – regale. Per forma e dimensioni l’essere meraviglioso assomiglia più o meno ad un’aquila’.
Altri preziosi dettagli sono aggiunti da Ovidio che nelle Metamorfosi ne parla in questi termini: ‘esiste un uccello che da solo si rinnova e si riproduce: gli Assiri lo chiamano fenice. Si ciba non di frutta o di fiori, ma di incenso e resine odorose. Dopo aver vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci s’abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi. Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a lungo quanto il suo predecessore. Una volta cresciuta e divenuta abbastanza forte, solleva dall’albero il nido (la sua propria culla, ed il sepolcro del genitore), e lo porta alla città di Heliopolis in Egitto, dove lo deposita nel tempio del Sole’.
Anche Dante evoca la Fenice, che viene ricordata nella Divina Commedia, nel XXIV canto dell’Inferno: ‘che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa; / erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce’. Fin dal Medioevo la Fenice è stata interpretata anche come simbolo della morte e resurrezione di Cristo. Mentre per gli alchimisti, la mitica figura veniva associata alla rinascita spirituale e alla Trasmutazione Alchemica, infatti ‘Fenice’ era il nome dato dagli alchimisti alla pietra filosofale. Qualcosa di simile si trova anche nella cultura e nella religione indiana dove il dio Garuda ha le stesse caratteristiche della Fenice.”
Sergio Risaliti, Araba Fenice, inserto in cofanetto: Opera unica / Marco Bagnoli, 2014.